9/8
2004

Niente da vedere [1]

Tornati sani e salvi dal nostro primo viaggio balcanico, risulta ora doveroso parlarne.

Ma come raccontare un viaggio durato una sola settimana, nella quale si sono percorsi un paio di migliaia di chilometri in treno ed autobus, attraversati quattro stati, parlate lingue che non si conoscono, viste pianure, montagne, mare, colline, città e persone, senza tregua, senza respiro, senza nessuna voglia di tornare a casa?

Mi ero ripromesso di tenere un diario di viaggio puntuale ed accurato. Nell’84 o giù di lì mi ero ripromesso di sposare Ornella Muti. Stesso risultato. ;-)

Siccome sono un dilettante (di balcani e narrazione) e ci tengo che si sappia, proverò con l’ordine cronologico degli eventi; mi riservo però il diritto di lasciarmi andare a digressioni per confondere il lettore e mi permetto persino di aggiungere che, data la costante alterazione del ciclo sonno/veglia, anche la distinzione tra un giorno e l’altro apparirà artificiosa e strumentale.

Un’ultima premessa: chiedo subito scusa a tutte le mie amiche di animo belgradese. Non abbiamo visitato tutti i posti che ci avevate consigliato... come sapevamo noi e voi fin dall’inizio, impossibile visitare Belgrado in tre giorni. Senza conoscere la città, poi. Ma questi erano i tempi e fondi a nostra disposizione, non vogliatecene; come ho già scritto in privato, questo rappresenta un’ottima scusa per tornare a Beo il prima possibile.

Day 1: Dalla periferia della storia a Belgrado

Venezia Mestre ci saluta come solo lei sa fare, ricordandoci la bellezza della terra che lasciamo. Otto euro per un panino e una birra, la voglia di partire si fa frenesia. Il Casanova, treno di lusso lontana destinazione, è un giocattolino pieno soprattutto di stranieri che in meno di quattro ore ci porta in Slovenia, senza intoppi né emozioni. A Ljubljana cade uno dei nostri primi preconcetti sui balcani: non è vero che i bigliettai delle stazioni sono tutti stronzi, qui c’è una signora che in un inglese smozzicato (il nostro ed il suo) ci spiega i prezzi dei biglietti e tutto quanto serve, facendoci evitare la lunga fila dello sportello per i viaggi internazionali. Dopodiché si mangia al volo qualcosa e si riparte, treno notturno in direzione Belgrado.

I posti prenotati a Mestre, semplicemente non esistono sul vagone... ci accomodiamo quindi in scompartimento con dei ragazzi croati che tornano a Zagreb. Crolla un altro dei nostri miti: neppure i croati non sono tutti stronzi antipatici come si dice in giro. Anzi. C’era questa tipa che studia a New York perché "lì è più facile, gli americani sono così stupidi", sprezzante del fatto che i treni italiani siano sempre in ritardo. Cosa rispondere? Non avevamo ancora provato i treni croati, del resto, altrimenti avremmo avuto argomenti a nostro favore. "Ma cosa andate a vedere a Belgrado? Non c’è niente, a parte la tomba di Tito." ci dice. "Giusto la tomba di Tito," fa eco un’altra ragazza, "non mi viene in mente altro."

Noi ci si guarda. La tomba di Tito non l’avevamo francamente messa in programma, ma se è così importante sicuramente sarà nella corrispondenza di Regina, guardiamo. Niente. Mah, allora sarà presso uno dei posti che Regina o Babsi ci hanno consigliato, la troveremo facilmente. Scopriremo poi con sudore che "Tito" è una parola tabù a Belgrado e che "l’unico posto da visitare" è anche il più difficile da trovare. Ma questo più avanti.

A Zagreb rimaniamo per qualche minuto soli nello scompartimento, sperando di poterci stendere un po’, ma presto salgono altri turisti. Inoltre il finestrino non si chiude e fa passare l’aria fredda della notte ed il rumore del treno che sfreccia veloce dalla Croazia alla Serbia. Non si dorme, si approfitta per fare conoscenza di un altro ragazzo croato salito poco prima del confine e diretto anche lui a Beograd, prima tappa di una vacanza in Russia. A differenza delle ragazze scese da poco, "Belgrado è una grande città, molto bella." mi spiega "Quando tutta la Jugoslavia era unita, era una potenza, decideva le cose. Ora che siamo tutti divisi nessuno conta più nulla, in Croazia i giovani pensano solo ad imitare gli americani, non c’è niente di cui essere orgogliosi." "Ma sono in tanti a pensarla come te?", gli chiedo. "No." mi risponde francamente. Poi inizia anche lui a parlarmi dell’Italia, dove sua sorella è sposata ad un imprenditore, e mi chiede cosa aspettiamo a dividerci da questo sud "dove non funziona nulla e la gente non ha voglia di lavorare".

La risposta più semplice sarebbe stata un ripasso della storia del suo stesso paese, ma mi sono trattenuto. Diciamo che politicamente non ci trovavamo proprio. Alle cinque di mattina Nello si è messo a spiegargli le connessioni tra il nostro Lestofante Capo e la mafia, la p2, la massoneria... mentre io e il Grifo ci scompisciavamo nello scompartimento a fianco. Ma tra viaggiatori si instaura sempre un certo spirito di solidarietà, e prima di arrivare a Beo ci ha offerto in treno il nostro primo caffé turco jugoslavo e ce ne ha spiegato il rituale, ci ha dato informazioni su dove trovare un buon burek (però era chiuso) ed altri consigli. Ed anche lui a chiederci: "Ma perché i treni italiani sono sempre in ritardo?" ed io e Nello che ci guardiamo e rispondiamo che francamente, dopo vent’anni ti ci abitui ed il perché non te lo chiedi neanche più.

Alle sei e mezzo del mattino, pressocché puntuali, pressocché a digiuno e pressocché barcollanti dal sonno, veniamo scaricati a Belgrado. Ci guardiamo un po’ attorno, storditi, poi carichiamo i bagagli su un taxi e ci facciamo portare all’Hotel Royal, nostro primo alloggio, categoria economico con una sola blatta (ma piccola, niente di ché).

Ljubljana, il leone in stazione A tribute



Primo Excursus: il caffé turco

"Turkish coffe is a social moment, like tea for English people." (Nicolaj, sul treno Ljubljana-Beograd)

Il caffé turco è stato una costante del nostro viaggio: il primo (che per me era anche il primo in assoluto) l’abbiamo bevuto praticamente alle porte di Belgrado, mentre già ci si affacciava sulla sterminata pianura e spuntavano i primi palazzoni in stile socialismo reale, cioé uguali a quelli di Mestre ma più grossi. L’ultimo lo abbiamo scelto come rituale d’addio sul Ljubljana-Venezia, ormai già al di qua del confine.

Il caffé turco, per chi lo ignorasse, va bevuto polako polako per non ingurgitare l’indigesto fondo e per goderselo appieno. Se preferite, l’espresso lo trovate comunque dappertutto. Ma se scegliete l’opzione turska kafa evitate almeno di fare come Nello che nella sua frenesia meridionale non è mai riuscito a berne uno in più di cinque minuti (o tre sorsate). La regola sarebbe "jedna kafa, jedna ora" o almeno così ci hanno spiegato, ma neppure io e il Grifo siamo mai riusciti a perdere più di mezz’ora dietro un buon caffé.

Il peggiore caffé turco, escludendo il primo perché le papille gustative non si erano ancora abituate, lo abbiamo bevuto per colazione al Bristol Hotel di Mostar. Quello di gran lunga migliore di tutti lo abbiamo gustato in una caffetteria sempre a Mostar, servito con tutti i crismi necessari al rituale ed il candito per addolcire la bocca. Se lo doveste cercare, è in M. Tita; non so per cosa stia la "M." comunque sulla cartina è scritto così :-)

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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