18/10
2004

Sabato nella città di T.

Sabato. Tutto lo splendido entourage di amici si chiude in casa a studiare, deprimersi, guardare fuori dalla finestra pensando ai sospirati ed ormai lontani giorni della gioventù ormai irrimediabilmente sprecati (ciascuno si segni nella casella che desidera). Io, semi-malato semi-chic semi-freak, decido invece di attraversare valli nebbiose e boscosi valichi montani per visitare una mostra nella città di T., già ben conosciuta e fatta mia in epoca remota.

La città di T. è curiosamente baciata dal sole, mentre tutt’attorno i monti sono imbiancati di neve e schiacciati da nuvole grigie. Mi immergo nel suo caratteristico traffico a senso unico e come ai bei tempi andati seguo il flusso di circolazione in tour panoramico, alla ricerca di un posto libero dove lasciare l’auto. Si sono inventati un bel collage di zone colorate riservate ai residenti, dove se solo provi a parcheggiare un vigile urbano è autorizzato a spararti in mezzo agli occhi senza chiedere scusa. Dopo una sana mezz’ora (non dimentichiamo che la città di T. è comunque un buco) riesco infine a lasciare l’auto nei pressi del famoso Castello del Bianconiglio, dove in tempi non troppo recenti ebbe sede un concilio ecclesiastico del quale ancora si discute con animato fervore ed entusiasmo. Solo entro i confini della città di T., s’intende.

Mi guardo attorno, mentre passeggio e raggiungo la galleria. Non vengo nella città di T. da quattro anni. Non è cambiato niente.

Lo stesso duomo dal rosone imponente, gli stessi turisti che sciamano attorno alla fontana del nettuno chiedendosi cosa cazzo ci stia a fare nettuno in una città posta a duecentocinquanta chilometri dalla spiaggia più vicina, gli stessi locali, gli stessi negozi, gli stessi piccioni, lo stesso tizio che ti scrocca la sigaretta, quell’altro che dal ’96 non ha ancora trovato i cinquanta centesimi che gli mancano per prendere il treno per Bolzano, gli stessi bambini con lo skateboard che si sgranano i denti sulla pavimentazione in porfido. Ecco, sì, hanno finalmente tolto l’impalcatura dalla facciata del teatro lirico. Visto il risultato, io ce la rimetterei, ma è questione di gusti.

La città di T. è morta, questa è la mia impressione. O almeno sta dormendo profondamente. L’esimio AM Conte di Cavour G mi ha fatto notare, ragionevolmente, che neppure il mal sopportato borgo natio è cambiato particolarmente negli ultimi quattro anni. Abbastanza vero. L’impressione che ho ricavato dalla città di T., tuttavia, è stata quella di una stasi paralizzante, soffocante. L’unica novità mi è sembrata questa galleria civica di arte contemporanea che forse non c’era, o forse non era così attiva, o forse ero distratto io tutto intento a disoccuparmi. La mostra sulla follia è bella ed inquietante, vale la pena di visitarla, ma uscendo il bigliettaio mi riporta subito alla reale dimensione della città augurandomi una buona serata.
Sono le tre del pomeriggio.
Dico, capisco che proseguendo verso nord in men che non si dica si arriva alla notte artica, ma cazzo, "Buona serata" alle tre del pomeriggio va oltre il mio livello di tolleranza.

Passeggio ancora un po’, vado a porgere omaggio alla fabbrica di disoccupazione dove un tempo ci si fumava allegramente i cannoni fingendo di studiare. E’ deserta ed immutata, ma essendo sabato pomeriggio chiaramente non ci si può aspettar di meglio. Sembra che un noto architetto stia mettendo mano alla città per dargli qualche pennellata di vita, ma al momento ancora non se ne vedono i frutti. Torno alla macchina prima che mi manchi il respiro, lascio la città di T. mentre alle mie spalle cinque persone si prendono a coltellate per rubarsi il posto auto tornato libero.

Terrò d’occhio questa galleria d’arte. Nel frattempo, per quanto strano possa sembrare, il ritorno al triste borgo natio sembra un’endovena di guaranà.

Nota di colore: sulla strada del ritorno mi taglia la strada uno scoiattolo. Ad occhio e croce, direi che appartiene ad una specie ritenuta estinta a fine seicento.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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