5/1
2005

Notte (giorno) Notte [1]

Era santo stefano, un giorno che mi ha sempre infuso un gran senso di tristezza, la lunga attesa per le feste comincia a trasformarsi in delusione per ciò che non è stato ed avrebbe dovuto essere. Lo scorso anno, poi, è stato tremendo: la donna che amo sta male ed io non posso starle vicino, altre disgrazie si accumulano, si accatastano, a mezzogiorno il telegiornale mi informa che mezza asia è sprofondata nel dolore. C i sono dolori che ci toccano più da vicino, sulla carne viva, ed altri lontani che sono molto più gravi ma che fatichiamo a sentire come nostri. Quel giorno, però, i dolori vicini e lontani, i miei e quelli altrui, mi si attorcigliavano nello stomaco, mi rendevano sofferente e frustrato, impedendomi qualsiasi azione che non fosse aggirarmi spettrale per casa. Ogni minuto di inazione si stringeva attorno al mio collo come una catena, soffocandomi, mi alzai infine dalla sedia e decisi di fuggire.
QUando si fugge, non si fugge verso qualcosa ma da qualcosa, tuttavia è utile avere una destinazione. Scelsi Napoli, per diversi motivi: in primo luogo ci si arriva giusto giusto con una notte di treno, il che mi avrebbe concesso un giorno intero per visitare la città senza spendere una lira in albergo (che la lira manca sempre). Poi c’era questa mostra su Caravaggio che volevo andare a vedere... dico, Caravaggio. Poi è al Sud e mi piace viaggiare verso Sud, scendere è sempre meno faticoso che salire. Infine, dettaglio non trascurabile, Napoli non l’avevo mai vista e mi pareva un peccato, non aver mai visto Napoli.
Quattro motivi sono già anche troppi per partire, non persi altro tempo e verificai gli orari del treno e della mostra, autobus per spostamenti, possibilità per prenotare il biglietto, cose del genere. Non potevo partire la sera stessa essendo già impegnato per il giorno seguente, posticipai la partenza di ventiquattr’ore che trascorsi a rafforzarmi nel proposito iniziale di viaggiare da solo, avevo parecchio su cui riflettere e non avevo bisogno di compagnia.
Partii verso le otto di sera, con l’equipaggiamento da viaggio leggero: un taccuino per scrivere, la macchina fotografica, un libro per il treno ed il telefono, tutto infilato nelle tasche sformate di u vecchio cappotto, così da non dovermi trascinare appresso borse o bagagli di nessun tipo. Scarpe comode per dormirci e camminare, sciarpa e cappello per il freddo delle stazioni. Nel portafogli il biglietto di andata e quello di ritorno, come non bisognerebbe mai fare quando si parte per qualche posto: a che serve il biglietto di ritorno se si sta fuggendo? Sapevo tuttavia di dover tornare e temevo di perdere tempo in una grande stazione, me ne pentii molto quando mi venne il desiderio di cambiare tragitto per il viaggio di ritorno e semplicemente non potevo permettermi un altro biglietto. Spesso essere troppo previdenti ci danneggia più dell’incoscienza.
Partii dunque, coincidenze a vicenza e a verona, qualche difficoltà a trovare il vagone corretto su questo treno che si spacca in due a mezza italia e seguono un troncone l’adriatico e l’altro il tirreno, tutti i posti a sedere prenotati ed io mi accontentati di un seggiolino in corridoio, scomodo, stretto, costretto ad alzarmi e a far passare altri viaggiatori con le loro ingombranti valigie, venditori di panini bibite caffè col carrellino ed il campanello, o gli abusivi che li seguivano ad un vagone di distanza con un secchio per mano. Qualche tempo fa ho sentito qualcuno, forse un ministro, lamentare come questi abusivi siano uno dei principali problemi dei treni nel meridione. Mi spiace per le ferrovie, ma a me questi abusivi non sono sembrati affatto un problema grave, occupavano anche meno spazio del carrellino dei regolari e davano quindi meno fastidio, a noi confinati senza prenotazione.
Perché non avessi prenotato almeno un posto in scompartimento rimane un mistero sul quale mi interrogati tutta la notte. A voler essere cattivi si può credere che io, da bravo veneto imbevuto di stronzate, pensassi che sotto sotto andare a Napoli fosse un’idea così balzana da poter venire solo a me. Da Napoli, la gente ci scappa, infatti per il ritorno il posto l’avevo prenotato. Più semplicemente, il treno dell’andata era un ’espresso ed io mica lo sapevo che si potesse prenotare il posto anche sugli espresso; quando il bigliettaio della stazione me lo propose mi rifiutai senza pensarci sopra, non gradendo interferenze sulla spontaneità del mio viaggio. Sono fatto così, i buoni consigli non li ascolto mai e poi me la gratto.
Finché le luci degli scompartimenti rimasero accese, lessi il libro che avevo portato con me; finché i miei corrispondenti rimasero svegli, spedii messaggi al mondo tramite cellulare. Mi informano che durante il giorno c’erano stazioni allagate sulla strada per Napoli, mi posso aspettare fino a tre ore di ritardo. Quando tutti andarono a dormire, io ero ancora fermo a bologna ed iniziai a girarmi e a rigirarmi sul seggiolino, puntellandomi contro le pareti alla ricerca di una posizione che mi permettesse almeno di sonnecchiare un po’. Impossibile, con la gente che doveva passare per raggiungere il bagno in fondo al vagone, o scendere, o salire, o salutare gli amici nello scompartimento a fianco.
Ad ogni fermata il rituale è il medesimo, tutti i finestrini si abbassano e da ciascuno escono una o due mani con la sigaretta accesa stretta tra le dita, incuranti del freddo e dei divieti. Il controllore fermo sulla banchina ci guarda indifferente, pure lui sta chiacchierando e fumando,m dev’essere un bello spettacolo visto da giù, tutte queste mani e queste bocche che si affacciano e sbuffano fumo, queste braci che ardono come le luci di un albero di natale lungo quanto il treno, senza intenzione è stata inventata una nuova magia, la solita benevola scappatoia.
A roma finalmente qualcuno scese e potei conquistarmi un posto in scompartimento, erano le sei di mattina e della capitale non riuscii ad intravedere nient’altro che le insegne della stazione, appena riuscii ad appoggiare la testa sul sedile mi addormentai. Aprii gli occhi che era passata forse un’ora e mezzo, la luce entrava dal finestrino e la prima cosa che vidi fu una sorta di fortezza abbarbicata su una collina in lontananza, tutt’attorno villette che sembrano venete, circondate dai campi addormentati nell’inverno. Eravamo a Cassino, per la prima volta nella mia vita vidi con i miei occhi le arance appese agli alberi.
Non è facile, in queste situazioni, tenere gli occhi bene aperti e capire ciò che si vede. Il lungo viaggio mi aveva sfinito e mi limitavo a fissare fuori dal finestrino la pioggia battente e ad aspettare l’arrivo. Caserta, la reggia la riconobbi grazie ai film americani, trasuda imponenza ed esige rispetto, emana più autorità che eleganza. Dopo Caserta fu subito Napoli e la sorpresa di trovare ad accogliermi un pugno di grattacieli in vetro e acciaio, ascensori panoramici che ne scalano la superficie esterna, gigantesche insegne di compagnie telefoniche. "Sembra NuYok", commenta un ragazzo rivolto alla fidanzata, dando voce allo stesso pensiero su cui stavo riflettendo io. Sembra NuYok e invece è Napoli, chissà quante altre bugie mi avranno raccontato su questa città.
[continua?]

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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