4/10
2007

Brutte compagnie

Un uomo viene lasciato dalla fidanzata, si strugge di dolore per un giorno intero, poi si fa forza e decide di uscire, forse con il desiderio inconsapevole di andare a cercarla, forse solo per distrarsi e prendere una boccata d’aria. Esce da solo, perché l’ultimo tormentato periodo della sua storia d’amore lo ha costretto ad allontanarsi dai propri amici, o magari non gli interessa sentire le solite banali frasi consolatorie che si sprecano in questi casi. Il suo dolore, egli avverte, è così grande che nessun contatto umano potrebbe essergli di conforto, nessun affettuoso luogo comune potrebbe lenire la sua sofferenza. Non che egli disprezzi i propri amici, ma in un momento così angosciante non li ritiene in grado di dargli nessun conforto. Meglio allora vagare in solitudine per le strade, senza una meta precisa, cercando di respingere le lacrime amare che si vorrebbero affacciare agli occhi, di resistere alla tentazione di correre da lei, dove non è più desiderato né amato.
Perso in questi pensieri, l’attenzione dell’uomo viene improvvisamente attratta da un gruppo di persone sedute in un bar, allegramente intente a scherzare tra loro, bere e fumare. Potrebbe il contrasto essere maggiore?
La tentazione di tirare dritto per la propria strada è grande, ma l’uomo, mosso evidentemente da un inaspettabile guizzo vitalistico, decide di entrare.
"Magari berrò solo un bicchiere e poi me ne torno a casa" pensa tra sé e sé.
Ma non va così, fortunatamente. In pochi minuti l’uomo viene attratto dal vortice di quell’allegra compagnia e si unisce a loro. Non è difficile fare amicizia con persone allegre, e quella malinconia che sembrava così pesante si scioglie grazie alla leggerezza del canto e del vino.
"E’ possibile, " si chiede l’uomo "che io sia già riuscito ad accantonare i miei affanni, che io abbia dimenticato la cagione di tanti tormenti? Che bastino poche ore di serenità con dei piacevoli sconosciuti perché dalla mie mente si dissipi il ricordo di colei che tanto mi ha fatto soffrire?"
Ma non è il momento per indugiare ancora infliggendosi supplizi, i nuovi amici incalzano e riempiono il bicchiere, qualcuno accenna poche note alla chitarra e la tristezza viene di nuovo rimpiazzata da una gioiosa canzone, le lacrime fredde che poco prima rigavano il volto lasciano spazio alle risate ed il cuore si sente riscaldare e tornare alla vita. Qualcuno, persino, gli dona un fiore: non ha importanza sapere chi sia stato, è forse ancora presto per aprirsi a nuovi sentimenti, ma è segno evidente che la solitudine appena iniziata sta già per finire e nuovi amori aiuteranno a dimenticare il passato.

Questa, in sintesi, è la trama di "La compagnia", canzone scritta da Mogol e cantata prima da Battisti ed ora da Vasco Rossi.

La morale di questa storia potrebbe essere: in fondo, non è poi così difficile ritrovare la felicità, basta fermarsi al primo bar ed ubriacarsi con degli sconosciuti, anche se c’è il rischio di svegliarsi la mattina dopo con un mazzo di gladioli nel culo. Ma la morale che ne ho ricavato io, mentre erroneamente ascoltavo l’autoradio tornando a casa dal bunker, era: Vasco Rossi si è rincoglionito del tutto. Mi sento francamente in imbarazzo per lui, e ritengo che dovrebbe essere internato in uno di quegli ospizi per cantanti senescenti sulla Sila. Anche se ormai è troppo tardi.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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