3/2
2020

Il male della Cina

Se c’è una cosa che vorrei fare ora, in barba a divieti e quarantene, è proprio salire su un aereo ed andare in Cina. Non per fare l’eroe e dimostrare a tutti che non temo virus o isteria collettiva, provavo lo stesso desiderio un mese fa, un anno fa. La mia nostalgia è una crisi d’astinenza, un fastidio fisico. Il mio naso brama l’odore umido dei templi meno frequentati, i miei polmoni vogliono riempirsi dell’aria grave delle metropoli. È qualcosa che sfugge al controllo dell’intelletto e si rivolge al Grande Interno, come direbbe René Leys. Più di tutto, mi manca il volo. Venti ore in classe economica, sapete quanto è scomoda, con le ginocchia piegate ed il cibo scadente, che se Bustina dorme tu non puoi dormire perché le tue gambe le fanno da letto e devi stare attento che non cada, e se Bustina non dorme tu non puoi dormire perché lei vuole parlare o giocare o fare un giretto per l’aereo. Mi mancano l’insonnia da viaggio intercontinentale, il collo rotto e quelle ridicole coperte di pail, l’aria filtrata che non è aria, i passeggeri assorti a contemplare schermi microscopici. Mi manca tutto il potenziale del viaggio che deve ancora cominciare, un itinerario che cambierà in corso d’opera, pranzi e cene da improvvisare, persone gentili che devieranno dalla loro strada per aiutarci, cose sconosciute che vogliono essere conosciute.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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